La sostenibilità si misura soprattutto sulla governance
Nell’era delle imprese ESG, la “E” di Environment la fa da padrona.

di Valeria Genesio*

La governance dimenticata. Nell’era delle imprese ESG, la “E” di Environment la fa da padrona. La “S” di Social si presta bene ai report di sostenibilità e alle campagne pubblicitarie. E la “G”? Troppo spesso confinata ad un piano tecnico e affidata agli uffici legali delle aziende.

Eppure, è proprio lì, nella dimensione gestionale, che si misura la coerenza più profonda di un’impresa con i valori che dichiara.

Quando parliamo di governance – termine che, significativamente, non traduciamo in italiano – il pensiero corre subito all’amministrazione interna: organigrammi, rapporti con i dipendenti, inclusione, codici etici, sistemi di compliance. Le politiche ESG dei principali operatori istituzionali e dei gruppi quotati confermano questa impostazione, limitando l’attenzione quasi esclusivamente agli aspetti endosocietari.

Ma una visione autentica del governo d’impresa non può fermarsi alla comfort zone delle procedure interne.

La partita della governance, infatti, si gioca soprattutto nel comportamento di un’impresa verso l’esterno: nell’etica delle pratiche commerciali, nella correttezza dei rapporti contrattuali, nel rispetto sostanziale – non solo formale – di clienti, fornitori, competitor e stakeholder. È qui che si vede se i principi dichiarati trovano riscontro concreto in contratti, negoziazioni, prassi operative e scelte quotidiane sul mercato.

Un esempio emblematico proviene dal settore immobiliare, dove la prassi contrattuale, soprattutto di matrice anglosassone, presenta spesso, anche nel wording, marcate asimmetrie tra le parti. I contratti sono concepiti per proteggere la parte forte, mediante clausole capziose o squilibri difficilmente superabili.

Tutto perfettamente legale, naturalmente. La libertà contrattuale e la ricerca del profitto sono pilastri del libero mercato e non possono essere messi in discussione. Tuttavia, tra la massimizzazione del profitto e l’abuso della propria forza economica passa una sottile, ma cruciale, linea di confine: l’etica.

Nonostante ciò, molte imprese si fregiano della “G” nei propri bilanci di sostenibilità e sui siti istituzionali, esibendo sofisticate procedure interne di nomina degli organi apicali o di gestione dei rischi. In alcuni casi, persino la lotta alla corruzione viene presentata come emblema di buona governance, come se il semplice rispetto della legge rappresentasse un indicatore di buona gestione.

Occorre allora ricordare che l’adesione ai criteri ESG è volontaria e presuppone uno sforzo che va oltre il mero rispetto della legge.

Essere ESG “piace” e “fa immagine”, ma non può ridursi ad una strategia di marketing, svuotata del suo intento originario.

Chi sceglie liberamente di adottare i criteri ESG si impegna a perseguire standard più elevati di responsabilità e sostenibilità. Limitarsi, quindi, alla compliance interna tradisce lo spirito stesso dell’ESG: costruire fiducia, garantire equità, promuovere comportamenti economici sostenibili e più equi.

Il concetto di governance merita, dunque, di essere recuperato nella sua accezione più ampia ed elevata: come responsabilità sociale di un’impresa, dentro e fuori l’organizzazione.

I Principi OCSE sulla Corporate Governance (2023) lo sottolineano chiaramente: una governance efficace richiede non solo strutture interne adeguate, ma anche l’adesione a standard etici nelle pratiche di mercato, la promozione di una concorrenza leale, la tutela degli interessi degli stakeholder esterni.

Analogamente, le Linee Guida ONU su Imprese e Diritti Umani ribadiscono l’obbligo per le imprese di integrare il rispetto dei diritti fondamentali in tutte le proprie attività, comprese quelle contrattuali.

Alcune soluzioni pratiche potrebbero colmare questa lacuna. Anzitutto, prevedere l’integrazione nei codici di condotta delle aziende “ESG-oriented”, il principio di equità e correttezza nelle negoziazioni e nei contratti nonché di rispetto delle controparti. Non basta richiamare l’etica: bisogna anche viverla nel proprio modus operandi quotidiano.

Va da sé la necessità di adottare modelli contrattuali fair, evitando negoziazioni aggressive e abusi di posizioni economiche e contrattuali, che spesso risultano “gratuiti” e arrecano un danno ingiusto ed evitabile alla controparte.

Un’altra soluzione pratica potrebbe essere quella di una valutazione ESG di fornitori e controparti non solo in termini ambientali (E) o sociali (S), ma anche sotto il profilo della trasparenza, dell’etica e della correttezza contrattuale (G). Importante sarebbe anche implementare una formazione interna all’azienda per sviluppare una cultura della correttezza e dell’etica contrattuale.

Da ultimo, occorrerebbe adottare una comunicazione trasparente verso l’esterno, includendo nei report ESG non solo gli aspetti di governance interna, ma anche i principi che orientano la gestione delle relazioni commerciali e il comportamento aziendale nella società civile.

La “G” di ESG non può dunque ridursi ad una mera etichetta formale. Governance significa, in un certo senso, riscoprire il valore di quell’“accordo tra gentiluomini” che la modernità sembra avere dimenticato e che un tempo si suggellava sin dalla stretta di mano. Non basta scrivere regole: occorre viverle, ogni giorno, in ogni relazione d’affari. Solo così la sostenibilità potrà essere autentica e credibile.

*Presidente Agedi