Se il diritto al conto corrente, di fatto, non è più un diritto.
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di Valeria Genesio*

Nella società contemporanea il conto corrente non è più un servizio: è diventato un bene primario, un prerequisito per vivere legalmente. Senza di esso non si può ricevere uno stipendio, pagare un affitto o accedere a prestazioni pubbliche essenziali. È la soglia minima di accesso del cittadino alla vita economica e alla società civile.

Il legislatore europeo lo sa talmente bene da aver introdotto, con la direttiva 2014/92/UE, recepita in Italia con il D. Lgs. 37/2017, il diritto ad un conto corrente di base per quei cittadini qualificati come “finanziariamente vulnerabili”. L’accesso ai servizi bancari di base, inoltre, è stato qualificato da diverse istituzioni internazionali come un diritto umano emergente, in linea con l’obiettivo 8 dell’Agenda 2030 dell’Onu sull’inclusione finanziaria.

Eppure, nella prassi, tale diritto spesso non è garantito. Con una frequenza crescente, individui e imprese si vedono rifiutare o revocare il conto corrente, nella maggior parte dei casi senza alcuna motivazione trasparente, sulla base di profilazioni opache o di automatismi estremamente cautelativi da parte degli uffici compliance degli istituti bancari.

Le banche esercitano al riguardo un potere discrezionale pressoché assoluto, appellandosi a valutazioni a “rischio riciclaggio” o a criteri di de-risking. Secondo il Consumer Trends Report 2024/25 dell’Autorità bancaria europea (EBA), il fenomeno del de-risking è oggi una delle tre principali criticità per i consumatori europei. La stessa Autorità ha qualificato l’accesso a servizi finanziari di base come un prerequisito essenziale per consentire ad individui e imprese di partecipare alla vita economica e sociale moderna.

Il diritto al conto riconosciuto per legge viene, dunque, svuotato da serratissime procedure di due diligence che trasformano un’imprecisione formale o una traduzione scorretta in un fumus, ogni singolarità in un sospetto. Basta un richiamo casuale in un database, un’omonimia o una notizia su un blog online per essere esclusi. Il tutto avviene senza contraddittorio, senza motivazione e, spesso, senza rimedio.

È un paradosso giuridico che impone una riflessione urgente.

A partire dagli anni Novanta, con la stagione delle grandi privatizzazioni avviata nel nome dell’efficienza e del libero mercato, il sistema bancario europeo – e italiano, in particolare – è passato da infrastruttura pubblica a rete di operatori privati. Una trasformazione radicale, che ha modificato l’equilibrio tra interesse generale e logiche di profitto. Poi, dopo l’11 settembre 2001, la sicurezza è diventata la nuova priorità globale: normative sempre più stringenti in materia di antiriciclaggio e antiterrorismo hanno progressivamente e inopinatamente trasferito sulle banche e su altri soggetti privati compiti propri dello Stato. Le banche si sono così ritrovate ad esercitare, de facto, una funzione pubblica di controllo, senza però dover rispondere ai principi e ai limiti dell’azione pubblica.

Le banche private – così come gli intermediari immobiliari, i notai e i liberi professionisti – sono state sostanzialmente investite dagli Stati della responsabilità in outsourcing di attuare normative in ambiti cruciali come l’antiriciclaggio, la lotta al terrorismo, la prevenzione della corruzione. Il risultato è che le banche, pur essendo enti privati a scopo di lucro, si trovano oggi ad esercitare obtorto collo una funzione pubblica priva di contrappesi. Eppure, un soggetto che svolge un ruolo di tale rilevanza pubblica dovrebbe farsi garante dell’inclusione economica; invece, questa viene sistematicamente sacrificata sull’altare dell’interesse privato o della tutela del proprio profilo di rischio. Senza considerare che, alla fine, i costi delle poderose strutture di compliance messe in piedi per attuare tali normative ricadono, come sempre, sul cittadino.

Va altresì evidenziato che gli istituti di credito basano spesso le proprie istruttorie su banche dati a pagamento come World Check (Refinitiv, oggi parte del London Stock Exchange Group), strumenti privati e non verificabili, alimentati da fonti pubbliche, ma anche da contenuti editoriali di attendibilità incerta e, persino, da risultati di motori di ricerca non verificati. Nel 2017 si erano interessati alla vicenda i garanti della privacy europei di Belgio, Italia e Regno Unito (al tempo ancora membro Ue), esprimendo forti preoccupazioni rispetto alle attività di raccolta di dati della piattaforma del colosso dell’intelligence finanziaria e aprendo alcune istruttorie sul rischio di schedature private di massa. Non se ne è più saputo nulla.

In questo contesto, l’inclusione o l’esclusione di un individuo dal sistema economico rischia di dipendere da preconcetti generalizzati o, peggio ancora, con l’adozione dei meccanismi di intelligenza artificiale, da algoritmi e “red flag” automatiche. Non va infatti dimenticato che, nella maggior parte dei casi, il diniego avviene senza fornire alcuna motivazione: talvolta bastano la provenienza geografica, settori di attività, semplici legami indiretti con soggetti ritenuti “a rischio”, una querela per diffamazione (arriveremo al revenge filing?) per negare l’accesso ai servizi bancari.

E se siamo tutti d’accordo che il conto corrente è ormai un diritto essenziale per vivere da onesti cittadini, allora è come se l’iscrizione a scuola fosse subordinata ad una valutazione predittiva del rendimento dello studente o se le cure sanitarie fossero erogate solo dopo che il paziente ha dimostrato in via preventiva che la terapia sarà efficace o che potrà guarire.

Così, mentre le direttive Anti-Money Laundering-AML (4, 5 e 6) rendono il conto corrente necessario per operare legalmente, lo stesso sistema nega quel conto in nome della legalità. È il rovesciamento della logica giuridica: per proteggere il sistema, si esclude l’individuo.

Le conseguenze sono drammatiche: un’azienda senza un conto corrente non può pagare dipendenti né onorare contratti. Soprattutto le PMI o le startup sono spesso escluse non per ragioni oggettive, ma per automatismi legati al settore (ad esempio, l’edilizia, l’e-commerce e l’assistenza domiciliare) o per il solo fatto di essere una società neocostituita. Una persona fisica è costretta a rifugiarsi nel contante e nell’invisibilità fiscale, in aperta contraddizione con gli obiettivi di tracciabilità delle norme antiriciclaggio.

Il problema non è, infatti, la mancanza di norme, che anzi sono state effettivamente adottate, anche con correttivi recenti. Il problema è l’applicazione pratica di tali norme e l’assenza di rimedi.

Ma chi controlla questo potere privatistico su un bisogno primario che, a livello internazionale, viene riconosciuto come human right? La Banca d’Italia, pur competente sulla trasparenza bancaria, non può obbligare un istituto bancario ad aprire un conto se questo invoca un rischio AML. Il Garante per la privacy può intervenire, ma solo a posteriori, a fronte di un illecito dimostrabile. Ma come farlo, in assenza di motivazioni scritte? La Consob non ha competenza, e spesso nemmeno le autorità giudiziarie, quando si è di fronte a contratti formalmente legittimi, ma strutturati in modo da escludere ogni possibilità di contestazione reale. Nel vuoto attuale, il cittadino è solo. Non esiste un’autorità terza che garantisca l’effettività del diritto al conto, non un ombudsman finanziario, non un meccanismo automatico di riesame delle esclusioni.

Eppure, negare un conto corrente non può essere il frutto di una decisione squisitamente commerciale: è una scelta sul destino altrui.

Di fronte a questo cortocircuito normativo – e sociale – è necessario ripensare il rapporto tra accesso bancario e libertà economica, che non deve mai sfociare nell’abuso di diritto o nella violazione dei principi civilistici di correttezza e buona fede da parte di una banca.

Alcune direttrici possibili. Anzitutto, rendere esigibile il diritto al conto come un diritto soggettivo pieno, per i cittadini e per le imprese, con una forma di garanzia pubblica o la vigilanza da parte di un’autorità indipendente. In secondo luogo, limitare la discrezionalità bancaria, onde evitare il rischio che, brandendo la spada dell’antiriciclaggio, si finisca per escludere dal sistema soggetti pienamente legittimati ad accedervi. Al riguardo si potrebbe imporre l’obbligo di motivazione per ogni rifiuto o chiusura (in linea con le ultime raccomandazioni europee) e prevedere un meccanismo di ricorso amministrativo celere. Da ultimo, è urgente regolamentare una volta per tutte le fonti di profilazione, subordinando l’uso di banche dati reputazionali o di altri strumenti privati di intelligence finanziaria a principi di trasparenza, verifica delle fonti, aggiornamento e diritto al contraddittorio.

Perché nessuno dovrebbe essere espulso dal sistema economico su base algoritmica e senza possibilità di replica.

Il diritto al conto non può essere un privilegio, ma la condizione minima per esistere legalmente. Negarlo, oggi, significa esercitare un potere assoluto senza responsabilità, alimentando proprio quell’economia sommersa che le norme antiriciclaggio mirano a contrastare. E questo, uno Stato di diritto non può consentirlo.

*Presidente Agedi